La temperatura percepita "è un falso fisico, neanche un luogo comune": cosa ci dice veramente questo dato sulle app meteo

Capita spesso: consultiamo l’app meteo, leggiamo che ci sono 33 gradi, ma appena mettiamo piede fuori casa ne sentiamo almeno cinque in più.
A volte ci vestiamo leggeri e poi tremiamo all’ombra, altre ci copriamo troppo e soffriamo tutto il giorno. La causa, dicono, è la “temperatura percepita”: ma cosa significa davvero questo valore, e perché crea così tanta confusione?
Molte applicazioni meteo la riportano accanto alla temperatura reale, presentandola come un dato oggettivo: “31 gradi, ma percepiti 38”. Il problema è che queste due cifre non descrivono due condizioni distinte dell’aria.
L’aria ha una sola temperatura fisica, misurabile con strumenti precisi. Ciò che cambia è la nostra risposta fisiologica a quella temperatura, in relazione ad altri fattori ambientali come umidità, vento o irraggiamento solare.
Il meteorologo Paolo Sottocorona, volto storico di La7, è netto durante un’intervista a La Stampa: la temperatura percepita «è un falso fisico, neanche un luogo comune». Il corpo umano soffre di più o di meno non perché cambiano i gradi, ma perché l’evaporazione del sudore, principale meccanismo di raffreddamento, è ostacolata dall’umidità.
Cosa misura davvero la temperatura
Quando l’aria è satura di vapore acqueo, l’umidità relativa è elevata e il sudore evapora con difficoltà, quindi trattiene il calore sul corpo. Il disagio aumenta, ma la temperatura atmosferica resta invariata. Fisicamente, la temperatura è una grandezza legata all’energia cinetica media delle molecole di un sistema. Non è una sensazione soggettiva, ma un valore determinato da strumenti tarati secondo scale definite: Celsius, Kelvin, Fahrenheit. L’idea di una “temperatura che si percepisce” introduce una variabile ambigua: percepita da chi? In quali condizioni? A quale tasso di umidità, per quale livello di acclimatazione?
Il primo tentativo di quantificare questa sensazione risale alla guerra del Vietnam, quando il dottor Robert Steadman elaborò un indice empirico per descrivere il disagio termico dei militari fermi sulle piste sotto al sole. Ne risultò un modello che combinava temperatura e umidità, quindi il precursore della cosiddetta “temperatura percepita”. Ma si trattava, già allora, di un indice approssimativo, pensato per valutare il rischio fisiologico in condizioni estreme, non per comunicare in modo generalista il tempo atmosferico.
La differenza tra realtà fisica e percezione corporea
Parlare di 35 gradi che “si percepiscono come 42” non significa che l’atmosfera sia più calda. Significa soltanto che il nostro corpo, in quelle condizioni, fatica a smaltire il calore. Ma la percezione è individuale e non può essere rappresentata da un numero universale. La temperatura percepita, quindi, non è un valore fisico, ma un indicatore di disagio. Trattarla come se fosse una temperatura reale porta a distorsioni comunicative, alimenta allarmismi e, paradossalmente, riduce la comprensione del fenomeno.
Per questo, secondo molti esperti, sarebbe più corretto parlare di indice di disagio termico, utilizzando modelli come quello di Thom o di Steadman in modo trasparente. Non per sostituire la temperatura, ma per contestualizzarla. Solo così si può passare da una comunicazione impressionistica a un’informazione realmente utile.
