Esistono degli elettroni che viaggiano a quasi la velocità della luce: ora sappiamo da dove arrivano

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La loro provenienza era rimasta dubbia a lungo. Nuovi approfondimenti hanno permesso di comprenderne le origini

Tra le particelle subatomiche fondamentali nella composizione della materia ci sono gli elettroni, parte della famiglia dei leptoni e contraddistinti da una massa estremamente ridotta, pari a circa 1/1836 se comparata ai protoni.

Gli elettroni svolgono un ruolo cruciale praticamente in ogni fenomeno fisico, localizzandosi sugli atomi e orbitando intorno al nucleo. La loro disposizione, classificabile in livelli energetici, si collega direttamente alle proprietà chimiche di un dato elemento.

La loro scoperta, datata 1897, è da attribuire al fisico britannico J.J. Thomson, che grazie all’esperimento dei raggi catodici riuscì ad evidenziare la presenza di questa particella. Questo evento si sarebbe rivelato determinante per aprire le porte alla fisica moderna.

Ma si tratta di un passo significativo anche nell’ambito della meccanica quantistica, in assenza del quale tecnologie che caratterizzano la nostra quotidianità e la nostra società oggigiorno, come i semiconduttori o i laser, mai sarebbero esistiti.

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Adesso è tutto più chiaro

La sonda spaziale Solar Orbiter, progetto congiunto portato avanti dall’Agenzia Spaziale Europea e dalla NASA, ha permesso di monitorare gli elettroni mentre gli stessi viaggiavano ad una velocità analoga a quella della luce, giungendo a comprenderne l’origine, da attribuire a differenti esplosioni solari. Gli elettroni energetici solari sono stati rilevati nello spazio successivamente all’accelerazione degli stessi ad alte energie, permettendo ai ricercatori di comprendere la fisica del Sole in modo più accurato. 

Gli approfondimenti hanno permesso di rivelare due tipologie differenti di SEE, distinte anche in base all’origine degli stessi: nello specifico, un gruppo è maggiormente correlato ai brillamenti solari, l’altro alle esplosioni di plasma note come espulsioni di massa coronale, ossia le più potenti e impattanti. La netta divisione permette di evidenziare come queste ultime siano in grado di rilasciare un’ondata di particelle decisamente più ampia, oltretutto in periodi di tempo più lunghi. Nonostante l’ipotesi circa l’esistenza di due distinte famiglie di SEE fosse praticamente una certezza, soltanto le osservazioni condotte grazie al Solar Orbiter hanno permesso di effettuare tale distinzione in modo chiaro. 

Nuovi dettagli e maggiore accuratezza

Il responsabile del team di ricerca, nonché ricercatore presso il Leibniz Institute for Astrophysics Potsdam ha affermato che il suo gruppo di lavoro sia riuscito ad identificare la distinzione tra i due gruppi solo osservando eventi a diverse distanze dal Sole, un qualcosa che soltanto Solar Orbiter si è rivelato capace di fare. L’avvicinamento estremo alla stella ha permesso di effettuare una misurazione accurata delle particelle in uno stato primordiale, definito ancora “incontaminato”. 

Senza dubbio a fare eco sono state, inoltre, le parole del Project Scientist dell’ESA per Solar Orbiter, Daniel Müller, che ha dichiarato come l’impiego dello stesso sistema si stia rivelando determinante per conoscere il Sole in modo più approfondito che mai, grazie all’osservazione di numerosi eventi SEE sui quali, successivamente, si sono sviluppate analisi dettagliate, permettendo la creazione di un database estremamente ben fornito. A scriverlo è Space.com.



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