"Sono un fallito", e va bene così: ecco perché il fallimento va rivalutato

C’è un momento in cui tutto sembra fermarsi, eppure è proprio lì che qualcosa si sta muovendo.
È un istante sordo, in cui ti senti sospeso, svuotato, fuori rotta. Ti dici che non sei abbastanza, che forse hai sbagliato tutto. E quella parola che mai vorresti dire ad alta voce, si fa largo nella testa: fallito. Ma se smettessimo di opporci a questa parola, e iniziassimo invece a guardarla meglio?
Nella narrazione comune il fallimento è un punto fermo, una sconfitta netta, il contrario del successo. Ma il pensiero lineare raramente descrive la complessità del reale. Le vite vere, quelle piene, creative, ambiziose, sono fatte di curve, interruzioni e risalite. E se è vero che esistono sconfitte amare e ricadute pesanti, è altrettanto vero che esistono strade che passano solo da lì. È una questione di prospettiva, di linguaggio, perfino di etimologia.
Il verbo latino fallere non indica un errore. Significa “ingannare”. E il fallimento, prima ancora di essere una caduta, è uno svelamento: qualcosa che credevi funzionasse, semplicemente non funziona. Ti sei fidato della direzione sbagliata, di un progetto, di un metodo, di una convinzione. Eppure, proprio in quel momento, ti si apre davanti la possibilità di vedere. Di rivedere. Di capire.
Tra schiene piegate e strade storte
Le biografie non sono curriculum. Dentro ci sono esitazioni, sbagli, fasi in cui niente sembra funzionare. Michelangelo che odia il proprio affresco mentre lo dipinge. Nelson Mandela che passa trent’anni in carcere prima di riscrivere la storia. Studenti che rifanno lo stesso esame diciotto volte, senza mollare. Dietro ogni opera grande, c’è una somma di inciampi piccoli. E nessuno di questi è tempo perso.
Ogni rivelazione nasce da una frattura. Ci sono momenti in cui il percorso prende una direzione che fa male, o che non porta da nessuna parte. E invece di reagire con vergogna, bisognerebbe imparare a registrare il cambiamento. Quel punto critico, se accolto e analizzato, può diventare uno strumento di misura per sé stessi. Una bussola. A volte, l’unica possibile.
Il fallimento non è la fine del percorso
Chi ha davvero fallito non è chi cade, è chi decide di fermarsi lì. Ma chi continua, chi riformula, chi accetta di riprovarci con nuove consapevolezze, sta già operando la trasformazione. Il fallimento non è mai il contrario del successo: è la sua condizione preliminare. Lo dimostrano la ricerca, la scrittura, la musica, la scienza. Ma lo dimostra anche la vita quotidiana, in ogni suo dettaglio: una bocciatura, un colloquio andato male, un progetto abbandonato, una relazione finita.
C’è una forza in chi sbaglia e torna, in chi si guarda negli occhi e non si piace, ma si rialza. In chi decide di diventare forte per davvero, sollevando ogni giorno i pesi invisibili dell’incertezza, della fatica, del dubbio. Non per mostrarli, ma per crescere. Ecco perché fallire va bene. Perché è necessario come respirare. E soprattutto, perché ci riporta a contatto con l’unica cosa che davvero conta: la nostra possibilità di cambiare.
