Questa collisione "impossibile" è stata finalmente spiegata: non dovevano proprio esistere

Sembrava violare le regole fondamentali della fisica: due mostri che non dovevano esistere, fusi in un unico evento che ha messo in crisi la relatività.
Quando nel 2023 gli interferometri gravitazionali hanno rilevato il segnale dell’evento GW231123, gli scienziati si sono trovati davanti a una collisione che non rientrava nei modelli noti. I protagonisti erano due buchi neri con masse stimate di circa 100 e 130 volte quella del Sole: entrambi ben dentro il cosiddetto “mass gap”, una fascia in cui i buchi neri non dovrebbero formarsi affatto.
In quella fascia, le stelle massicce, secondo le teorie, si autodistruggono in supernove così energetiche da non lasciare alcun residuo. Eppure, i dati parlavano chiaro. Le caratteristiche del segnale erano compatibili con due oggetti estremamente compatti, di massa proibitiva e rotazione elevatissima.
Per molti astrofisici, era un’anomalia inspiegabile, una sfida diretta alle nostre conoscenze sull’evoluzione stellare e sui limiti della relatività generale. Il punto cruciale riguardava non solo l’esistenza di quei buchi neri, ma anche la dinamica della loro formazione.
L’ipotesi di una fusione secondaria, cioè la collisione di buchi neri più piccoli già fusi in passato, non riusciva a spiegare il livello di spin rilevato. Occorreva un meccanismo nuovo, capace di formare oggetti così massicci e veloci senza passare da eventi precedenti.
Un collasso stellare fuori dagli schemi
Il nuovo modello, sviluppato attraverso simulazioni tridimensionali ad alta risoluzione, ha tracciato la vita di una stella ipermassiccia con nucleo di elio oltre 250 masse solari. La chiave, però, non è solo la massa iniziale: è la rotazione. Quando la stella collassa, la sua velocità angolare e i campi magnetici interni determinano la distribuzione del materiale che cade verso il buco nero nascente.
Se la rotazione è rapida, il collasso genera un disco di accrescimento denso e instabile. Le linee di campo magnetico all’interno del disco possono produrre getti potentissimi, in grado di espellere grandi quantità di materia prima che questa venga inglobata. Il risultato è che il buco nero finale risulta molto meno massiccio del nucleo originale, ma conserva gran parte dello spin iniziale.
Come si spiegano i buchi neri “proibiti”
Questo meccanismo permette la formazione di buchi neri all’interno del mass gap, sfuggendo alla logica distruttiva delle supernove classiche. La simulazione mostra anche un legame preciso tra massa residua e velocità di rotazione: campi magnetici più intensi portano a maggiore espulsione di massa e quindi a buchi neri più leggeri e lenti. In presenza di campi più deboli, il risultato è un oggetto più pesante e più veloce.
Questa relazione è esattamente quella che emerge dall’analisi delle onde gravitazionali di GW231123. Uno dei due buchi neri sembra essere nato da una stella con forti campi magnetici, l’altro da una con campi più deboli. È la prima volta che un singolo evento fornisce un riscontro così preciso a una dinamica teorica così estrema.
La scoperta offre anche una nuova chiave di lettura sull’origine dei primi buchi neri dell’universo e su come siano cresciuti fino a diventare i colossi che oggi dominano il centro delle galassie. Se questo tipo di formazione è più comune di quanto si pensasse, allora il mass gap non è più un limite, ma una zona di frontiera della fisica ancora tutta da esplorare.
