"L'intelligenza artificiale ci sta annientando", e non è un modo di dire: questi sono i pericoli che corriamo

Non ce ne accorgiamo, ma ci stiamo spegnendo lentamente: l’intelligenza artificiale non ci sta solo aiutando, ci sta anche sostituendo. E nel frattempo, la nostra voce si fa più flebile.
L’evoluzione tecnologica è sempre stata accompagnata da entusiasmo e sospetto. L’invenzione della stampa, del telefono, di internet ha generato onde di cambiamento che si sono sedimentate lentamente nella società. Ma con l’intelligenza artificiale il processo si è compresso: la diffusione è rapida, silenziosa, invisibile. La percezione collettiva si è mossa lungo un asse ambiguo, oscillando tra euforia e rimozione. Nessuno sembra davvero sapere come affrontare ciò che sta accadendo.
Nel mondo della scuola, la trasformazione è già evidente. In apparenza, tutto funziona: studenti che scrivono, risolvono, consegnano. Ma dietro questa facciata efficiente si cela un fenomeno ben più complesso. L’AI è diventata una protesi cognitiva, un’estensione del pensiero. Il problema non è tanto nell’uso quanto nell’abuso, nella sostituzione silenziosa dell’esperienza dell’apprendere con il consumo di soluzioni già pronte, rapide, personalizzate.
In questa dinamica si inserisce una mutazione più profonda. L’attività mentale sta diventando accessoria, un passaggio che si può delegare. Il cervello, come un muscolo che non lavora, si adatta all’inattività. Meno sforzo, meno linguaggio, meno complessità. La scuola diventa luogo di passaggio, non di costruzione. Non c’è più tempo, né stimolo, per sbagliare, correggersi, capire.
La riflessione si fa urgente proprio perché l’AI è potente. Nessuno nega i benefici in ambito medico, ingegneristico o scientifico. Ma il problema emerge laddove la tecnologia entra in competizione con il processo formativo umano. Quando uno studente chiede a un modello linguistico di scrivere un tema simulando gli errori di un quattordicenne, il confine tra autenticità e artificio si assottiglia in modo pericoloso.
Il cuore scolastico che si svuota
La nuova pigrizia cognitiva non nasce per svogliatezza, ma per disponibilità. Le risposte sono lì, a portata di clic. Non serve cercare, esplorare, sbagliare. L’apprendimento si trasforma in prestazione e perde la sua dimensione più importante: quella trasformativa. L’AI, offrendo risposte immediate, sta silenziando il processo interiore del pensiero critico, dell’argomentazione, della connessione tra concetti. Le ore di studio condiviso, i pomeriggi passati a discutere un problema con gli amici, stanno lasciando spazio a una solitudine individuale davanti allo schermo.
La conseguenza più evidente si misura nelle classi: calo delle capacità espositive, lessico sempre più ristretto, frasi monche. Non si tratta di conoscenze tecniche mancate, ma di un’inabilità progressiva a costruire e articolare un pensiero. È come se il linguaggio, specchio della mente, stesse regredendo in silenzio. E con esso, la possibilità di capire davvero il mondo.
Il prezzo invisibile dell’efficienza
Fuori dalla scuola, l’effetto si amplifica. L’intelligenza artificiale occupa spazi sempre maggiori della nostra attenzione, anche nei momenti di relazione. Le domande sulla solitudine non sono più retoriche: si moltiplicano le testimonianze di adolescenti chiusi in sé stessi, ritirati sociali, figli di un contesto in cui il digitale, anziché connettere, isola. È un paradosso difficile da accettare: nel momento in cui abbiamo tutto, sentiamo meno.
Il vero pericolo non è l’AI in sé, ma il modo in cui la stiamo interiorizzando. La delega delle funzioni cognitive e relazionali alla macchina non ci rende liberi, ci rende più fragili. Non si può pensare di diventare medici, ingegneri o poeti senza aver affrontato la fatica dello studio, dell’errore, della formazione lenta. Nessuna intelligenza artificiale può sostituire questo processo. Perché apprendere, in fondo, non è ottenere una risposta, ma diventare qualcuno.
