Forse la fine dei Maya non è stata la siccità ma il miglioramento del clima: il paradosso scoperto dagli scienziati

Una nuova ricerca suggerisce che non fu la crisi ambientale a causare l’abbandono delle città Maya, ma un inaspettato miglioramento delle condizioni di vita nelle campagne.
Per decenni si è pensato che la scomparsa delle grandi città della civiltà Maya fosse dovuta principalmente a un lungo periodo di siccità. Ma una nuova ricerca guidata da un team internazionale e coordinata dall’archeologo Douglas Kennett dell’Università della California a Santa Barbara propone una lettura sorprendente: a determinare la fine dei centri urbani fu anche, e forse soprattutto, un miglioramento delle condizioni ambientali.
Quando vivere in città non conviene più, le persone se ne vanno. È una regola che vale oggi tanto quanto nel passato, e che gli scienziati hanno applicato per cercare di capire cosa spinse gli antichi Maya a rinunciare alla vita urbana dopo secoli di splendore.
La nascita delle città classiche nella regione delle Lowlands Maya fu possibile grazie a un insieme di fattori: cambiamenti climatici sfavorevoli, conflitti tra gruppi e investimenti su larga scala nell’agricoltura. Secondo lo studio pubblicato sulla rivista PNAS, proprio questi elementi spinsero le popolazioni rurali, formate in gran parte da agricoltori, ad accettare i costi e i rischi della vita urbana in cambio dei vantaggi economici, della protezione militare e delle opportunità sociali offerte dalle città.
Un modello di crescita che ha molto in comune con il funzionamento delle città moderne: anche allora, la densità abitativa aumentava quando l’agricoltura intensiva permetteva di produrre di più in meno spazio, e quando la pressione ambientale o sociale rendeva le campagne meno attraenti.
Il paradosso dell’abbandono urbano
La sorpresa dello studio è emersa analizzando le cause della fase opposta: il declino e l’abbandono delle città. I ricercatori si aspettavano di trovare un legame diretto con il peggioramento climatico, come periodi prolungati di siccità. E invece hanno scoperto che, al contrario, l’esodo urbano avvenne proprio quando il clima cominciava a migliorare.
Con l’alleviarsi dello stress ambientale e una maggiore disponibilità di risorse nelle campagne, molte persone abbandonarono le città per tornare a vivere in ambienti più salubri, autonomi e meno congestionati. Le città, diventate costose e degradate, non offrivano più i vantaggi che un tempo avevano giustificato il loro sviluppo.
Per comprendere questa dinamica, il team ha utilizzato un approccio basato sulla teoria ecologica della popolazione. Questo metodo consente di misurare il bilancio tra costi e benefici della vita urbana in relazione a fattori esterni come il clima, i conflitti e le risorse agricole. La forza del modello è di integrare spiegazioni diverse, ambientali, economiche, sociali, in un’unica struttura analitica coerente.
Un nuovo modello per capire l’evoluzione urbana
Secondo Kennett, il risultato più sorprendente è proprio il ruolo giocato dalle condizioni favorevoli, non da quelle avverse, nel determinare il declino delle città Maya. È una lezione che mette in discussione molte ipotesi precedenti e che suggerisce che anche la libertà e l’autonomia possono spingere alla dispersione urbana.
Lo studio non riscrive solo la storia dei Maya, ma offre anche spunti per capire meglio i processi urbani contemporanei. Le città nascono, crescono e a volte declinano in base a un equilibrio delicato tra ciò che offrono e ciò che costano ai loro abitanti. Quando le condizioni cambiano, anche le scelte delle persone cambiano.
In definitiva, la lezione del mondo Maya è che le città non crollano solo per crisi: talvolta si svuotano perché altrove si vive meglio. Una verità che, se guardiamo all’attualità, suona sorprendentemente familiare.
